Nobiltà e clausura – Le cavalieresse
gerosolimitane a Firenze e a Pisa

Le monache pisane di San Giovanni dei “Fieri” ‘discesero’ dalle sante suore (v. Santa Ubaldesca) dell’ospedale dei Gerosolimitani dei secoli XII e XIII. Le consorelle fiorentine di San Niccolò dei “Frieri” pare avessero come prima casa l’ospedale dei Templari di Sant’Iacopo in Campo Corbolini negli anni ‘90 del secolo XIII.
Ovvero entrambe ebbero necessità, per il servizio dei poveri e infermi, di vivere presso l’istituzione di assistenza almeno fino a quando questa fu in grado di operare liberamente. Tra tre e quattrocento, infatti, venuto meno il suo grado d’imporsi, le suore se ne staccarono, fondando un monastero proprio, che pure conferì prestigio all’intero Ordine.
Furono, in altre parole, protagoniste di un’evoluzione della quale rimangono dei ricordi frammentari, se non controversi, ma che furono usati nell’ultimo ventennio del settecento per redigere due memorie rimaste negli archivi.
Nella prima si scrive in sintesi la storia sul monastero fiorentino e la nobiltà delle suore. Si ricorda fra Riccardo Caracciolo “gran maestro dell'ospedale di San Giovanni di Gerusalemme (che ora dicesi gran maestro di Malta), con una sua bolla magistrale data nel convento di Santa Croce di Firenze sotto dì 3 maggio 1392, nella chiesa e spedale di San Nicolò de’ Frieri, fondato da Bindo Benini presso la porta di San Pietro in Gattolino, (che ora Chiamasi La Calza)”, il quale “formò un nuovo monastero” che fu detto delle “donne di San Niccolò de’ Frieri e donne di San Giovannuzzo”. E vi sistemò cinque “dame fiorentine che l'avevano pregato di ammetterle nel famoso ordine dei suoi Cavalieri, onde furono chiamate ancora col nome di cavalieresse”. Le sottopose al Gran Priorato di Pisa a particolari condizioni:
“Siccome i frati, o sieno Frieri (che è l’istesso che fratelli)” ammisero persone di famiglie tra le più illustri d’Italia, così fra Riccardo permise l’ingresso solo alle donne “notoriamente nobili, la prima delle quali fu la signora Piera di Andrea Viviani ... la prima commendatrice”. E le monache “nuovamente elette, seguendo il costume del loro gran maestro, non ammisero” altre donne che non fossero nobili.
La disposizione durò fino a che “tennero il governo di questo monasterio i principi della Real Casa de’ Medici come Gran Priori di Pisa, i quali per timore che non si rilassasse mai questa scelta di persone” proibirono l’ammissione nell’educatorio a chi non vi appartenesse. Se nascevano dei dubbi si faceva “un processato camerale” e si verificava ...
Tra il 1500 e il 1530, diverse furono le giovani vestite cavalieresse: “Lucrezia Simoni, Lessandra Bicci, Marietta Allegri, Marietta del Vivaio, Lessandra Ugolini, Margherita Franceschi, Dianora Peruzzi, Maria Lippi, Ginevra Canigiani, Maria Simoni, Lisabetta Baldovinetti, Marietta Canacci, Ginevra Bardi, Lucrezia Nerli, Nannina Soderini, Tita Buondelmonti ...”, tutte nobili.
Nel 1516 la memoria ricorda anche la dote di ammissione tra le ‘corali’: 100 fiorini d’oro in oro che vennero corrisposti, oltre al “fornimento”, cioè al corredo, da Maria di Filippo di Giunta Cartolaio, poi suor Arcangiola (deceduta il 12 agosto 1536).
Non è difficile capire come proprio la nobiltà e il denaro conferissero, oltre al prestigio, entrate sicure ai monasteri.

Stabiliti monache e conventi – siamo nella seconda memoria – alcune donne dei Frieri uscite dal monastero, per breve di papa Eugenio IV, ottennero “di poter pretendere gli alimenti delle loro doti”, mossero lite e nel 1442 ne ebbero in consegna un podere per goderne l’usufrutto.
Nel 1463 alcune fanciulle “presero i panni col segno della croce e il velo nero e giurarono la professione nelle mani di fra Antonio Frescobaldi priore di Pisa”; fecero lo stesso delle giovani non nobili, le “servigiali”: una per il servizio di “tessere”, la seconda, figlia del contadino del monastero, per quello della cucina.
In quest’occasione fu cantata la messa nell’oratorio del convento, presenti cavalieri e parenti delle suore.
La professione consisteva di promettere a Dio, alla SS. Vergine e a San Giovanni Battista di vivere “sempre casta, di non aver proprietà e di obbedire a tutti i superiori dati loro dall’Ordine e specialmente alla badessa commendatrice, e di voler sempre vivere nel monastero”. Non imponeva quindi una clausura stretta – afferma la memoria – e concedeva agli esterni di poter entrare negli ambienti monastici, come l’oratorio o gli orti, per “diporto” o vari motivi.
Ovviamente nel secolo degli “abusi” (il Cinquecento) ne avvennero tanti e così conclamati che il Concilio di Trento prese la risoluzione di comandare l'osservanza. Cominciarono a prescriversi “regole e cautele” che (ri)stabilirono una clausura, sebbene ci fossero forti resistenze anche da parte delle religiose più ottemperanti come Santa Caterina de’ Ricci († 1590, terziaria regolare) in Prato, “disobbediente” secondo gli atti del processo di beatificazione.
E tuttavia non vi era menzione nei libri di una clausura più antica di quella conciliare – la memoria conclude. Così il primo settembre 1785 l’arcivescovo Antonio Martini “fece il decreto di abolizione di clausura” del monastero di Firenze, “divenuto conservatorio”.

Non molto tempo dopo, il 16 settembre 1799, le cavalieresse pisane e il nobile signore luogo tenente Gino Ginori († 1816), presero in esame una terza “memoria”, questa volta dello scritturale, il contabile Domenico Ranieri Puccinelli.
Non vi trovarono una gran questione: era solo una richiesta di aumento di stipendio motivata dal rincaro “delle derrate” – dopo il passaggio e i furti dei francesi –, dalla diminuzione delle educande e dalla mancanza delle vestizioni di monache – che, anche qui se ne ha conferma, assicuravano sempre un’entrata molto buona alla comunità.
Puccinelli dichiarava che già lo “voleva domandare” ma “non aveva avuto il coraggio di chiederlo”. Ora però, vedendo l’avanzo delle entrate di luglio, faceva istanza di sei scudi l’anno in più per arrivare al totale di 30 scudi (il 25%).
Era lo stipendio che gli pagava il monastero di San Benedetto e che quello di San Bernardo corrispondeva al suo scritturale. Non volendo però “scomodare la cassa del monastero”, chiedeva che fosse corrisposto dall’agente dei beni di campagna “al tempo dei saldi” che annualmente si facevano ai rispettivi coloni.
La questione, pur piccola, dovette far sì che Ginori chiedesse spiegazioni e le monache gli presentassero una nota sugli “incerti”, i regali fatti allo scritturale. Vi ricordavano indirettamente anche le maggiori feste e la quotidianità claustrali, fornendo informazioni che per il ricercatore sono sempre interessanti da leggere. La trascrivo:

“Quello che à d’incerti in tutto l’anno il nostro scritturale.
Nel gennaio per il desinare del carnovale un piatto di dolci e il Giovedì Crasso un piatto di maccheroni e un panino.
Nel febbraio per la Purificazione [di Maria, o Candelora, il 2 ] una candela di mezza libbra.
Nel marzo, se viene la Settimana Santa, un pane di ramerino e de’ dolci.
Nel aprile per la Pasqua di Resurezione un capretto e 20 coppie d’ova e de’ dolci.
Nel maggio per la festa di Santa Ubaldesca [† 1205, 28 maggio] un panino [suora ospedaliera e non di clausura, era considerata la santa di riferimento del monastero].
Nel giugno, per la festa di San Giovanni [il 24], un bacile di paste e due fiaschi di vino bianco.
Nel luglio un fiasco d'olio una filza di ginevi [sic] e un panino e delle volte altri incerti essendo per la mutazione dell’impieghi [il rinnovo degli incarichi conventuali].
Nell'agosto per la decol(l)azione di San Giovanni [il 29] un piccolo vassoio con de’ savoiardi e un panino.
Nel settembre, quando viene l'uva, li se ne manda una panierina e con delle castagne e delle noci quando se ne ricoglie, e ancora qualche civaia [legumi secchi].
Nel ottobre, quando ci viene il vino, lì se ne dà qualche fiasco e ancora nel decorso dell'anno.
Nel novembre per i Santi un vassoino di fave e un panino e, avendo il carnovalino in detto mese [forse il giorno 11], per il desinare un piatto di dolci e un piatto di maccheroni.
Nel dicembre per le 4 tempore [mercoledì, venerdì e sabato dopo il 13] à 4 scole [sic], per il Natale un paro capponi e lire 6 di mancia.
In 4 anni sono entrate in monastero undici educande, li donna una piastra per ciascheduna; per l’incomodo dell’argenti, quando ci erano i francesi [la consegna di quelli espropriati], li si diede un zecchino, e quelli del granduca paoli dieci”.

Il 24 settembre il balì Ginori scrisse in calce alla memoria:
“Concedesi come si domanda, con che debbino cessare tutti gl’incerti che percipeva dal predetto monastero all’anno, eccettuata la solita annua recognizione del capretto, capponi, e uova, come hanno praticato fin’ora. È così. Non altrimenti”.

Paola Ircani Menichini, 22 luglio 2022.
Tutti i diritti riservati.




L'articolo
in «pdf»